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21 Aprile 2019

Un’Italia in vendita: normale globalizzazione o scenario preoccupante?

I conti si fanno velocemente, negli ultimi anni più di 460 aziende storiche del made in Italy, in tutti i settori, dall’industria, al lusso, ai beni alimentari, ai servizi hanno cambiato sponda: made in foreigner. Alcuni esempi fanno sobbalzare: gli americani hanno fatto incetta nell’alimentare (Invernizzi, Negroni, Splendid, Saiwa, Plasmon Barilla). Ebbene sì, Signori, oggi il Mulino non è più bianco ma a stelle e strisce. Non posso o voglio elencarle tutte, ma alle ultime notissime cessioni (Italcementi, Grom, Telecom) vorrei aggiungere qualche chicca: Safilo è olandese, se brindate con Gancia dovreste dire “na sdarovie” (sono russe), l’Ercole Marelli e la Fiat Ferroviaria sono della Alstom francese, Fiat Avio lussemburghese, la Lucchini russa e per finire la brevissima e solo paradigmatica carrellata nel lusso LVMH ha incorporato Prada, Gucci, Loro Piana, Pomellato. Krizia invece è cinese e, lo dico con un fremito nella voce, anche la storicissima “Benelli”. Ah…i cioccolatini Pernigotti? Turchi e la Peroni sudafricana. Mi costringo a forza a terminare qui l’elenco, perché non è quello che vogliamo fare: ne vogliamo discutere.

Va da sé che questo comporta una perdita di asset fondamentali ed immateriali: qualità, tradizione, esperienza, artigianalità nel produrre beni e sevizi, valore aggiunto, quel “non so che” che non si può esprimere ma che faceva pensare a tutto il mondo “viene dal sole d’Italia, viene dalla straordinaria creatività italiana, viene dallo spirito di un paese che affonda nel bel vivere e buon produrre secoli e secoli di storia”.

Naturalmente il Management della maggior parte delle società acquistate non cambierà, ma questo poco ci dice: noi, esperti di Executive Search che conosciamo perfettamente il mondo ben lavoro, ben sappiamo che con una guida diversa i Manager agiranno diversamente: già in moltissime società serpeggia un vivo malcontento, ce lo dicono i Top manager ed i Manager che incontriamo tutti i giorni. Si è venuta a creare una situazione di instabilità estrema e molti considerano con favore un cambiamento, in Italia o all’estero.

È ovvio: cambia la cultura del lavoro cui gli italiani tengono tanto, appartenere ad una società italiana o cinese comporta un cambio di mentalità profondissimo cui non tutti si adattano ma soprattutto cui non tutti sono disposti ad adattarsi.

Sulla Cina apro un breve inciso: pare essere il maggiore “shopper around” nelle previsioni del prossimo anno, puntando nella UE proprio sull’Italia, dopo aver colonizzato Africa e parte della Grecia (certo non lo sapevate ma il Porto del Pireo ha occhi a mandorla), per la prima volta l’anno scorso gli investimenti cinesi all’estero hanno superato quelli interni; di che tremare.

In tutto questo le società italiane hanno pochi strumenti per difendersi: la pressione fiscale ed il costo del lavoro sono ai massimi mondiali e potremmo anche chiederci se le realtà messe in vendita sarebbero sopravvissute altrimenti in un mercato globale.

Non siamo qui a decidere se l’Italia sia condannata ad essere colonizzata o meno, lascio al buon senso di ognuno trarre le ovvie decisioni. Quello che mi preme sottolineare è che rischiamo una fuga di cervelli, i pochi internazionalmente validi, verso mete più cosmopolite e meno attaccabili.

Questo temo grandemente: Manager e Top Manager preparati, con buona conoscenza delle lingue (quindi rari in Italia), che si accingano, preso atto del problema ad emigrare lentamente ma continuamente portando ad un’ulteriore impoverimento il tessuto manageriale già di suo scarno a livello di competenze globalmente interessanti, ad un decadimento dell’Italia non solo nei brand vantabili “di casa” ma – molto peggio – di preziosissime risorse umane senza le quali nulla può essere costruito, in Italia né in alcun altro luogo.

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